Ho appena letto da Wired dell’approvazione del disegno di legge che prevede la chiusura dei siti italiani di ecommerce per dodici giorni l’anno.
“L’articolo 1 di questo disegno di legge non prevede, fra le varie eccezioni richiamate dal comma 1 ter, i portali di e-commerce basati sul territorio italiano. Cioè i negozi virtuali. Ci sono per esempio i fiorai, i ristoranti, le gallerie d’arte, le rosticcerie, gli spacci dei camping, le stazioni di servizio e in generale le attività indicate da un decreto legislativo ancora più vecchio, il n.114/1998, ma non le migliaia di siti internet di artigiani, commercianti, catene, piattaforme stabilite in Italia.”
Sono costernato. Per l’ennesima volta dimostriamo l’arretratezza del nostro paese attraverso il solito paradosso tutto italiano. Decisioni su cui si tornerà indietro sicuramente, frutto di incompetenze. Ma è arrivato il momento di non dover più perder tempo dietro alle assurdità. Prevedere la chiusura di un negozio online è tornare indietro di trent’anni; a quando per commercio elettronico si intendeva la vendita a dettaglio torce elettriche. La chiusura di un negozio online è un errore. E non possiamo accettare che ci impongano errori dall’alto nelle nostre attività di impresa.
Vendere online non è aprire e chiudere un sito. Non credo sia questo il post adatto per concentrarci sul concetto di ecommerce in senso tecnico. Ma fidatevi, avere un sito online in cui è visibile una lista di prodotti in vendita, non è fare ecommerce in senso pratico e concreto. Chiudere un negozio online è sbagliato. E’ possibile, è gestibile volendo con una giusta strategia e un adeguato servizio clienti, ma alla domanda se sia giusto, va risposto che è sbagliato. E nessuno può imporci di commettere errori!
Personalmente credo che regolamentare la chiusura di qualsiasi esercizio commerciale anche fisico, di qualunque settore, basandola su un disegno di legge che esula dalla volontà del commerciante e dell’imprenditore sia criminale. Lo ritengo una privazione della libertà di svolgere il proprio lavoro, soprattutto se questa privazione è imposta in una repubblica fondata sul lavoro, e a cui si versano imposte tra le più alte. Ma tant’è, galleggiamo nei paradossi. Solo che in questo momento storico in cui si grida all’innovazione, al cambiamento, ai miglioramenti anche di quelle branchie del sistema che da sempre sono una zavorra per questo paese, viene voglia di urlare ancora più forte l’indignazione verso l’incompetenza ingombrante e persistente.
Siamo un paese ancora arretrato. Ci stiamo provando però a cambiare, si sente nell’aria. Si percepisce, e ci credo. Ma siamo ignoranti, tutti. A partire dai giornalisti che ci informano di queste notizie definendo l’ecommerce un “settore”. Il commercio elettronico non è un settore! E’ commercio puro! Al massimo definiamolo un canale. E allora occorre che non si entri con prepotenza nel lavoro di chi prova a restare a galla e fare impresa, e ci sta riuscendo. Leggere una notizia del genere a metà luglio, praticamente nel momento in cui chi pratica ecommerce sta studiando il modo per organizzare strategicamente la gestione ottimale delle vendite durante il periodo abitudinale di ferie estive, ed è consueto farlo in occasione di ogni festività, battendosi con le innumerevoli difficoltà di un paese in cui i servizi legati alle dinamiche del commercio elettronico sono esponenziali, a partire dalla logistica, con la disorganizzazione delle aziende di trasporti, è sconfortante.
Poi, sempre dall’articolo: “Confcommercio e Confesercenti giudicano positivamente il provvedimento.” Le associazioni di categoria, tutte, dovrebbero lasciar intervenire i propri rappresentanti più competenti a parlare di determinati argomenti. E non chi si permette di giudicare, perchè evidentemente incompetente, positivamente un provvedimento assurdo. Occorre andare oltre le cariche. Non bisogna lasciarsi rappresentare dagli incaricati quando gli incaricati non hanno le competenze per dimostrare il nostro pensiero. Giudicare positivamente un provvedimento del genere è assurdo. Chiunque si prenda carico di rappresentare una comunità, che sia formata da privati o da aziende, deve avere le competenze adeguate rispetto all’argomento oggetto del tema. Altrimenti deve avere l’intelligenza di tacere e delegare l’intervento in rappresentanza di quella categoria, al più competente associato. Le assurdità si evitano con azioni semplici.
In egual modo è antico, obsoleto, inutile, controproducente, interpellare per un problema del genere il presidente di un consorzio che ha scopo di lucro. Siamo in un momento storico in cui occorre incentivare le singole aziende a camminare con le proprie gambe anche nel digitale. Occorre incentivarle a fare rete. A capire quale rete scegliere o creare, come attingere dalla rete, come farla propria e riuscire a dare e ad avere da quell’economia della condivisione che in questo momento ci sta salvando e potrà darci slancio. Nonostante il tremendo ritardo rispetto ai paesi europei, per ogni azienda associata a a un consorzio o a una associazione di categoria, ne abbiamo N+ che non lo sono. Occorre creare portare queste aziende alla consapevolezza della propria identità e del proprio eventuale ruolo in associazione o in consorzio.