Davanti alla tazza di caffè del lunedì, quello più importante intendiamoci, quello che serve a mettere in moto il pensiero creativo di qui ad una settimana, mi vengono in mente molti amici e conoscenti che mi chiedono che cosa ne pensi del fenomeno del coaching e delle varie tecniche per diventare leader in breve tempo.
La risposta è sempre la stessa: ho massimo rispetto per i punti di vista diversi dai miei, ma non condivido questo fenomeno: non credo in questo fenomeno per il profondo rispetto che nutro nell’ essere umano e per la fiducia riposta nelle sue infinite potenzialità di espressione.
Da clinica conosco bene il dispendio di energia (tempo e denaro) che ogni uomo deve mobilitare per arrivare ad un cambiamento reale in se stesso; non basta apprendere delle “tecniche” per giungere al reale cambiamento di sé, ma il cambiamento bisogna inventarselo ogni volta, scoprendolo dentro se stessi.
Chiariamo subito che non si tratta di una critica, ma di espressione di un punto di vista che parte da una visione del mondo (una welthanshauung) ben diversa.
Il coaching parte dal presupposto che è possibile indurre il comportamento desiderato all’individuo attraverso degli stimoli che creano risposte predefinite e uguali per tutti. Il cambiamento si crea, certo, ma non proviene direttamente dall’uomo e gli effetti possono durare poco.
La visione del mondo a cui faccio riferimento invece, parte dal presupposto che ogni cambiamento parta dall’uomo stesso e solo esclusivamente da lui (E. Fromm Dalla parte dell’uomo); la persona va in crisi e in questa condizione riesce a vedere le infinite potenzialità che possiede e sceglie liberamente di attivare le energie che più rispettano il proprio modo di essere: il risultato è un cambiamento proprio, peculiare, identico solo a sé stesso e duraturo nel tempo. Diversi studi hanno dimostrato che i cambiamenti che derivano da motivazioni interne hanno effetti più duraturi di quelli che derivano da fattori esterni.
Queste due visioni del mondo partono anche da un modo diverso di considerare l’essere umano: il primo lo vede come un soggetto passivo che risponde semplicemente a degli stimoli esterni, mentre la II visione vede l’uomo attivo e fortemente partecipe del suo processo di cambiamento, in sostanza ha un profondo rispetto e una profonda fiducia nelle sue possibilità.
Un effetto non trascurabile inoltre, riguarda il fatto che il cambiamento ottenuto con il primo metodo è un cambiamento standardizzato, misurabile, uguale per tutti, mentre quello che ne deriva dal secondo approccio è caratteristico e peculiare della persona (azienda) stessa.
Pensiamo ora a tutto questo discorso applicato nell’ambito aziendale: se io voglio portare un cambiamento nella mia azienda mi si aprono a questo punto due strade:
1. Forse più semplice, offro stimoli esterni alla mia azienda, stimoli che sono uguali a quelle di mille altre e così facendo ho un cambiamento, ma la mia azienda non si contraddistinguerà dalle altre.
2. Se il mio obiettivo è invece quello di far sì che la mia azienda si distingua in un mercato fortemente concorrenziale, devo trovare in essa stessa quali sono le sue potenzialità, le sue risorse che posso veramente attualizzare. In questo modo il cambiamento che avrò ottenuto sarà caratteristico e peculiare e la mia azienda si contraddistinguerà tra le altre.
Certo la prima strada è quella più semplice, lineare, c’è qualcuno fuori che dice come “fare”e in tempi brevi, mentre la seconda richiede uno sforzo maggiore, una riflessione approfondita sull’azienda, le sue caratteristiche, i suoi limiti, quello che realmente può fare, ma il cambiamento che ne deriverà sarà sicuramente unico e farà sì che la nostra organizzazione si stacchi dallo sfondo per emergere come figura.