Ieri sera, dopo uno scambio in privato con uno dei responsabili di un noto incubatore di startup con sede a Roma, facente capo a Telecom, mi sono fatto trarre in inganno dal mio impulso. Per una decina di minuti è rimasto online qui nel salotto un post titolato L’innovazione in Italia: la nostra rovina è chi crede di farla. Ho deciso di rimuoverlo perché poteva apparire un qualcosa senza senso, ma purtroppo quando si toccano delle corde personali, senza conoscere la storia altrui, si va incontro a delle reazioni impulsive. Ora, a mente fredda mi fa piacere articolare.
Innanzitutto non è vero che chi prova a fare innovazione in Italia è la rovina di questo paese. C’è l’innovazione che si scrive e si urla, l’innovazione fatta parola per capirci, che non serve a niente se non a creare un pò di eventi a beneficio dei soliti noti che intascheranno i fondi degli investitori, o peggio quelli statali, solo perchè capaci di giustificare, spesso con carte false, determinate attività. Quell’innovazione atta a radunare in uno spazio comune tutti quei ragazzi che attratti dall’inarrivabile sogno americano pendono dalle labbra di chi gli racconta la storia di quell’uno su mille che ce l’ha fatta o di quelle aziende nate, cresciute, sviluppate in quell’America così tanto lontana dal nostro paese per chilometri, cultura, sistema economico, mentalità, che se potessero crescere in Italia non staremo ogni giorno a parlare di crisi economica, di crisi di valori, di futuro più che incerto, ma saremmo un’America in cui si sarebbe sviluppata un’altra Silicon Valley.
Poi c’è l’innovazione che si fa. Quella silenziosa che gli stessi fautori non sanno di star intraprendendo, che prende vigore nel momento in cui qualche persona seria la scova e gli da risalto al di fuori dei soliti canali, quella che quando se ne parla è già un’impresa e non un’idea. Quella che quando la senti o la leggi ti fa immaginare un futuro nel nostro Mediterraneo e non oltre oceano. Quella innovazione che è ancora tanto immatura per colpa dei nostrani educatori alla materia parlata. Quell’innovazione bella dei makers già makers (non delle classifiche) e quella utile dei futuri artigiani che prendono coscienza di come innovare le proprie radici. Quella che in un modo o nell’altro può attivare il vero necessario cambiamento.
Ecco, di queste due accezioni di innovazione ho discusso ieri con quella persona, a cui già in passato cercavo di far capire che startup non significa innovazione.
Si è presentato con nome e ruolo professionale. Mi ha proposto una sponsorizzazione nell’incubatore. L’ha proposto addirittura prima a me piuttosto che ad altri brand blasonati, proprio per l’attività che mi vede svolgere online. Avrei dovuto praticamente offrire il mio caffè gratuitamente a beneficio di quei ragazzi che occuperanno l’acceleratore lavorando per le loro startup, e che, tral’altro, pagano alcuni servizi in determinati casi.
Ho rifiutato. Mi sono reso disponibile a stringere un rapporto cliente-fornitore a condizioni vantaggiose per tutti. E provocatoriamente ho chiesto come mai un’azienda come Telecom avesse bisogno di sponsorship per le proprie attività. Non l’avessi mai fatto…
Certo che la #crisi investe proprio tutti. Telecom che ha bisogno di sponsor per il #Caffè per le #startup dell’incubatore. #Disgustato
— Luca Carbonelli (@LucaCarbonelli) 7 Gennaio 2014
Mi è stato risposto che l’innovazione (evidentemente la prima di cui ho parlato sopra) richiede sforzi ingenti di tutti, e in tutto il mondo gli acceleratori sono sponsorizzati da una moltitudine di soggetti. Il punto non è risparmiare sul caffè. trovo le cialde ese a 0.15, in un anno saranno 5mila euro. Il punto è lavorare in network, condividere con altri perchè siano 5mila euro per soggetto e non 50mila tutti in capo a noi. Anche perchè i 50mila noi preferiamo darli in investimento alla startup meritevole.
Il calcolo ipotetico basato sulle potenziali sinergie future da venirsi a creare non è che mi era nemmeno molto chiaro, ma in più mi è sovvenuto un ragionamento logico, credo: se voi risparmiate sui 50mila euro per darli alle startup, perché io (sponsor) ve ne offro in merce o in soldoni, o in altro, vorrà dire che a investire in queste startup non siete voi ma io (sponsor) tramite le attività che poi voi andate a vantare in giro. Quindi domani il ventur capitalist della startup vincitrice di uno dei tanti “eventi facciata” porterà sì il nome dell’incubatore e dell’azienda che c’è dietro, ma in pratica investirà (ovviamente il discorso è concettuale) coi soldini risparmiati grazie alle aziende sponsor. Mi è stato risposto che 50mila euro su 2milioni di investimento sono bruscolini. Si, ma sono i miei bruscolini e non i tuoi. E poi sono le sponsorship, al plurale. Sono bei bruscolini.
Questo passaggio in una logica di mercato può anche essere una dinamica normale. Ma mi chiedo dove sia l’innovazione in un comune rapporto tra cliente-fornitore regolato da dinamiche di pubblicità-cambiomerce atto a risparmiare per puntare su altri investimenti (startup).
Quando poi mi sono congedato facendo presente che mi sarei sempre tenuto alla larga da queste ambigue dinamiche a beneficio degli innovatori di chiacchiere si è finiti col degenerare nel celolunghismo imprenditoriale: io ho fatto due imprese. Il giorno che ne hai fondate almeno un paio, avrai sufficiente capacità di comprenderlo, il mio profilo. Ma sono certo che preferirai continuare a giocare all’innovatore cazzarando sui social grazie all’azienda di papà. Ecco, è qui che era scattato l’impulso.
Ora, tralasciando il personale. Che la storia è un pò diversa. La mia domanda è: come si fa impresa nel 2014? È identificabile realmente con il termine impresa quel progetto (startup) che per avviarsi perde anni di potenziale vitalità in attesa di un venture capitalist o di un fondo statale? È definibile impresa quella società nata sulla base di requisiti necessari scritti su un decreto, e che ha intascato tanti di quei fondi di cui prima, e che poi è andata sgretolandosi nel giro di pochi mesi non lasciando tracce alcune di quei fondi? L’ AD, il CEO, il Founder, o come vi piace chiamarlo, di quella startup è l’innovatore da tener come riferimento? O forse l’innovatore è il ventur capitalist (il ministero o la multinazionale) che ha puntato su di lui affidandogli quei fondi poi perduti? Io non credo.
Un altro termine troppo usato e svalutato è crisi, proprio come startup. Non tutte quelle che oggi chiamiamo startup rappresentano un’impresa in fase embrionale. Non tutto ciò che chiamiamo crisi rappresenta un cambiamento dall’equilibrio in cui si versava. Non siamo più in crisi. Lo stato della nostra attuale economia non è più da definirsi crisi. È costante, da più di un decennio ormai. Domani, sperando che riusciremo ad uscirne al più presto, lo ricorderemo come un periodo storico poco produttivo per le nostra aziende, durante il quale lo stato non ha saputo trovare celermente il modo per aiutarle e per reggere un’economia florida. Oggi, stiamo vivendo questo periodo. Allora basta parlare di crisi. La crisi è quando in un periodo di equilibrio arrivano circostanze tali per cui l’equilibrio viene a mancare. Sono anni che viviamo in un equilibrio precario. Con un’economia precaria. Bisogna lavorare per superare questo periodo, ma finiamolo di chiamarla crisi, che è meglio. Altrimenti rischiamo di far crescere i ragazzi nell’ottica errata che con la chiacchiera dell’innovazione nel megafono, che recluta giovani nerd che fanno startup, possa domani mattina questo periodo avere fine e la nostra economia rifiorire grazie alle chiacchiere. E intanto le imprese continuano a chiudere e i giovani a partire.