
Quando Antonio mi ha scritto che mi invitava perché voleva che io presentassi ai futuri startupper napoletani la mia esperienza di successo mi sono sentito lusingato e fuori luogo allo stesso tempo.
Ed in effetti quello che ho fatto la sera al pub, davanti ad un paio di birre scure e ad una trentina di appassionati startupper dalle menti vulcaniche (alcuni dei quali, non a caso, reduci dall’esperienza #Vulcanicamente ed accompagnati dall’impareggiabile Antonio @killermedia Prigiobbo) credo sia stato tutt’altro che tranquillizzante per coloro i quali si accingono a percorrere l’impervio percorso verso il successo.
Antonio mi ha scritto che mi invitava perché voleva che io presentassi ai futuri startupper napoletani la mia esperienza di successo mi sono sentito lusingato e fuori luogo allo stesso tempo.
Lusingato perché veniva riconosciuta la mia ‘seniorship’ in iniziative legate alla creazione di impresa, tra l’altro in compagnia di una persona di sicuro spessore come Luca Carbonelli; fuori luogo perché la menzionata seniorship non è certo valsa, finora, il successo a quella che è stata la mia idea, da ricercatore universitario, di trasferire competenze (mie e delle persone che lavorano con me) verso il mercato.
Ad Antonio ho detto di non aspettarsi, da me, un discorso in stile ‘tarallucci e vino’, il racconto di una storia di successo legata al lancio sul mercato di una nuova impresa capace di camminare con le proprie gambe.
Ho parlato di Meetecho, la società che ho creato con un gruppo di ragazzi (miei ex-tesisti qualche anno fa, oggi tre dei miei migliori amici) che hanno avuto il coraggio e l’ambizione di rinunciare al posto fisso per guadagnarsi un ruolo da protagonisti all’interno di un’azienda costruita da noi stessi, mattone dopo mattone, bit dopo bit.
Per la cronaca, Meetecho è una piattaforma per il lavoro collaborativo in rete, frutto delle nostre ricerche nel campo delle applicazioni multimediali in tempo reale e della nostra esperienza internazionale nell’ambito della standardizzazione della rete Internet.

Di Meetecho ne ho parlato con passione, cercando di essere obiettivo – per quanto obiettivo possa essere un napoletano che conosce bene il detto ‘ogni scarrafone è bello a mamma soia”-, evidenziando quelli che sono indubbiamente dei punti di forza del nostro prodotto, ma ammettendo anche tutte le nostre attuali carenze, legate alla pressoché totale assenza di forza commerciale, nonché alla poca capacità di aggredire il pur fertile mercato del lavoro collaborativo in rete.
Ho raccontato degli iniziali successi nell’ambito di iniziative quali #workingcapital, dei primi clienti, della soddisfazione nel riuscire a tenere testa a colossi quali Cisco e Google, diventando fornitori ufficiali del servizio di supporto alla partecipazione da remoto ai meeting dell’IETF, il principale organismo internazionale nel campo dell’ingegnerizzazione della rete Internet.
Ma poi non mi sono potuto sottrarre alla gogna, dovendo ammettere le molteplici sconfitte che Meetecho ha subito negli ultimi due anni, da quando abbiamo, forse ingenuamente, pensato di rivolgerci ai venture capitalist italiani, incontrandoli praticamente tutti, a più riprese, ma non riuscendone a convincere nessuno, almeno fino ad ora.
Ho cercato di alleggerire il racconto con aneddoti e gag, elencando gli innumerevoli modi di dire ‘no’ ai quali ho assistito durante questo periodo:
(i) “siete in gamba, ma troppo cari per noi (che possiamo fare solo piccoli investimenti ndr)”
(ii) “se mi portate un Business Plan per un valore raddoppiato della richiesta di finanziamento allora ne riparliamo”
(iii) “se mi portate un Business Plan per un valore dimezzato della richiesta di finanziamento allora ne riparliamo” (peccato non aver incontrato questi ultimi due nell’ordine inverso, magari le cose sarebbero andate meglio!)
(iv) “…una società con dentro dei Prof. universitari non avrà mai soci ‘fully committed’…”
(v) “…a me – che sto qui a Napoli, ndr – piacete moltissimo, ma quelli di Milano – che poi sono gli unici che decidono – non sono molto convinti…”.
Insomma, ce n’è per tutti gusti, tanto da poter scrivere un breviario dal titolo “Come dire no al tuo interlocutore sperando che non si prenda collera!”.
Ed io mi sono divertito a lamentarmi, a ‘fare i picci’, dopo due anni in cui ho fatto, invece, tanti ‘pitch’. Ma, appunto, si è trattato di un divertissment, di una parentesi.
Quello che ho cercato di lasciare ai ragazzi che mi ascoltavano, come messaggio positivo, sincero, è quello che penso da sempre e che ultimamente mi trova ancora più convinto, e cioè che il finanziamento di un venture capitalist può fungere senz’altro da acceleratore, può fornire un impulso, ma di certo non rappresenta la panacea, la soluzione a tutti i problemi di una start up.
Potrei essere vittima della ‘sindrome della volpe e l’uva’, ma ultimamente tendo sempre più a pensare che noi di Meetecho probabilmente non abbiamo nemmeno bisogno di questo tipo di partner.
Quello che ci serve, e che ho scritto sul bigliettino che circolava nel pub per raccogliere feedback, è qualcuno con competenze complementari alle nostre, non un tecnico, ma, piuttosto, un esperto di marketing di nuova generazione, un commerciale di quelli capaci non di consolidare il rapporto con clienti acquisiti, ma di scovarne di nuovi.
L’obiettivo che ci siamo dati noi è quello di iniziare a dimostrare seriamente, e sul campo, la validità della nostra idea, muovendoci sulle nostre gambe, iniziando con piccoli passi, ma procedendo via via più spediti.
Del resto il motto di Meetecho è ‘think big, start small, scale fast’. A pensare in grande non ci abbiamo mai rinunciato. Piccoli oggi lo siamo senz’altro. Diciamo, allora, che non ci resta che crescere!
