“You think you have to want more than you need,
until you have it all you won’t be free”
(Eddie Vedder, “Society”)
Non parlerò dello splendore di Angkor, perché quello dovete vederlo, le mie parole non sarebbero all’altezza di descrivere le vertigini che si sentono di fronte a tanto incanto, di fronte a quello che é il connubio perfetto della creazione umana e l’arte della natura, non vi descriverò le città, ne tanto meno vi parleró della caotica e sfiorita Phnom Penh, o degli orrori delle carceri-museo del regime di Pol Pot.
Vi racconterò invece della mia Cambogia e dell’abbandono un po’ cercato , un po’ inevitabile, di tutto il superfluo, di quelle cose a cui uno si abitua credendo poi di non poterne più fare a meno.
Ho lasciato in valigia l’orologio, il cellulare, i libri, la musica per cercare di sentire più me stessa, e non perdermi rincorrendo il tempo o nelle lunghe chat che non dicono nulla.
Tornare in Asia é per me sempre come una sorta di regressione nel tempo, un leggero abbandono, una danza di colori, suoni, profumi e ricordi che mi travolge per riscoprirmi poi in una dimensione senza tempo dove ci sono io e tutto il resto, e tutte quelle quotidiane e abitudinarie ossessioni si fanno effimere.
…
All’improvviso il tempo si ferma, e a segnarlo sono solo le tonalità del cielo e dell’oceano che cambiano all’orizzonte.
…
Ero in viaggio verso Sihanoukville, una graziosa città sulla costa sud dove si incontrano decine e decine di occidentali giovani e non, gente che ha voglia di star bene ma senza troppe pretese, gente tranquilla rispetto al resto della razza occidentale che é possibile incontrare in giro per il sud est asiatico. Fuori dal finestrino si susseguivano immagini di alberi immensi, maestosi, terra rossa, densa, bagnata , all’orizzonte solo km di verde sgargiante ed azzurro brillante; ore ed ore di semplice vita quotidiana, piccoli villaggi di contadini e pescatori con le loro piccole case-palafitte di legno e zinco e i mercati affollati al mattino. Fuori dal finestrino scorrevano immagini di gente china nelle risaie; di alcuni bimbi giocando in una pozza di acqua piovana o gettandosi in mare, nudi, o mezzi vestiti, ma sempre scalzi. Erano piccoli, umili e sporchi, ma sembravano divertirsi, sembravano
felici.
Li guardavo, mi tormentavano ancora le urla degli adulti di quando ero bambina “cosa fai? così ti sporchi? ti farai male! prenderai un raffreddore! vieni a guardare la tv…” e pensavo che in questo angolo di terra quei bambini sporchi e nudi erano proprio poveri ma liberi e felici.
Meno felici erano invece i mendicanti che ti si avvicinavano ovunque per strada, in spiaggia, nei ristoranti; pezzi di uomo, mutilati dalle stupide guerre, giovani che ancora oggi sono smezzati dagli ordigni inesplosi lanciati e lasciati dall’esercito americano durante il più grande e meritato fracasso del cattivo Zio Sam nella storia moderna.
La loro fottuta guerra in Vietnam. Ecco si, quando poi smetti di osservare, otre ai colori densi e alla maestá di madre natura continui a sentire il ridere dei bambini ed il pregarti dei mutilati.
Avevo lasciato la terraferma, il rumore delle moto, i negozietti, i bancomat e l’elettricità disponibile 24 ore, per passare dei giorni su una minuscola isola nel Golfo di Thailandia. Ero in barca, in viaggio di ritorno e continuavo a sentire il rumore della giungla che mi aveva tenuto compagnia le notti sull’isola, il delicato fruscio delle onde avanti al bongalow al mattino, lo stare scalzi tutto il tempo, quei piccoli e brillantissimi cristalli come stelle che ti si formavano intorno al muoverti in mare di notte che ti fanno sentire parte di tutta quella magia.
Al mio ritorno pensavo che sarebbe passato del tempo prima di ritrovarmi distesa sotto una coperta di stelle come in quelle notti, e che tutto il resto é superfluo.