Ho avuto “l’onore e il piacere” di essere tra gli speaker di #InspiringPR 2015. Appuntamento dedicato all’ispirazione, che ieri ha concentrato l’attenzione sul tema dell’ascolto. Ne vengo fuori arricchito. Di relazioni nuove, di consapevolezze nuove, di stimoli nuovi, di Venezia e di emozioni vecchie ritrovate.
Relazioni
“Sono relazioni pubbliche, relazioni coi pubblici. E no pubbliche relazioni! “ continuava a ripetermi Toni Muzi Falconi durante tutto l’evento, perché, più o meno in tutti gli interventi degli speakers che si sono alternati sul palco, si sentiva quell’espressione che tanto lo fa imbestialire; poi noi eravamo stati inseriti in scaletta per ultimi, quindi, un po’ per programma, un po’ perché interessanti, ma soprattutto per educazione, li abbiamo ascoltati tutti. E personalmente posso dire che ognuno mi ha lasciato qualcosa. Alcuni interventi davvero illuminanti. Però Toni ci teneva, glielo doveva dire che non si chiamano pubbliche relazioni ma relazioni pubbliche. E alla fine gliel’ha detto.
Ero arrivato a Venezia la sera precedente, e insieme ad alcuni degli organizzatori siamo stati a cena, ci aveva raggiunti già anche Toni. Una serata piacevole nella sua più spontanea semplicità. Io stavo scoprendo Venezia, e tra una battuta e l’altra sui veneti, davvero mi sorprendevo del calore che mi abbracciava. Non me l’aspettavo. Non so perché ma sono stato davvero sorpreso. Forse mi aspettavo un clima più freddo e invece… bello.
A fine serata, dopo i saluti, io e Toni, che alloggiavamo allo stesso albergo, abbiamo percorso la strada insieme. Già durante cena ero a dir poco affascinato dalla storia che si porta dietro, tutta in faccia e sulle mani, e dagli aneddoti che raccontava. Ora, facendo il tragitto insieme potevo avere modo di rubare qualcosa dalla sua esperienza; ho subito provato a cercare un argomento. “professò, quindi lei…”, si gira, mi ferma e mi fa “perché mi chiami professore? che è sto Lei? io sono Toni”. E ho capito che non c’era bisogno di rubare proprio niente, che lui regala. E no, non c’entrava il pronome. Erano quegli occhi, il tono, l’espressione. E allora gli ho fatto tante di quelle domande che nemmeno in cinque anni accademici. Ho saputo del suo lavoro tra l’Italia e New York. Siamo finiti anche a parlare di politica, di quella legata alle imprese. E mentre parlavamo io mi sentivo rincuorato perché risentendo nelle sue parole quelle che sono anche le mie convinzioni, i tanti dubbi che inevitabilmente mi colpiscono ogni tanto prendevano senso. Poi “Toni ma tu di dove sei?”, “ah boh… Roma, Milano, boh”. E siamo andati a dormire.
Al mattino seguente ero ansioso di continuare quella conversazione. Dovevamo arrivare alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, e c’era quindi abbastanza tempo per altre domande.
Quando sono con persone come Toni, ricche di vita, di esperienza, di storie, di aneddoti, e umili, terribilmente umili, io divento una spugna. Vorrei raccogliere quanto più possibile. E ci sono riuscito. Però ad un certo punto ho ricevuto quanto non mi sarei mai aspettato: durante la nostra conversazione, Toni si ferma un attimo, pensa e… “devo ricordarmi di scrivere a Tizio. È una settimana che ci penso a questa cosa. Sono due anni che porto avanti una mia tesi su un argomento e la settimana scorsa su Internazionale ho letto un suo articolo che in una pagina smonta completamente la mia tesi. E ha ragione. Devo assolutamente chiamarlo e dirgli che ha ragione”. Detto con una tale serenità, una tale consapevolezza, e una tale voglia di approfondire l’argomento con chi gli stava forse facendo cambiare idea su una convinzione lunga due anni, che sono restato a guardarlo ammirato, e ho pensato che non ho mai sentito nessuno, dall’alto o dal basso di una brillante o fumosa carriera, fare un passo indietro riconoscendo le ragioni di un collega. Soprattutto nel contesto in cui ormai viviamo e lavoriamo, che è il web. Poi leggendo un suo post su Facebook, lasciato dopo l’evento, in cui si augurava di vedere meno buonismo in giro, ne ho capito il senso di quell’augurio. Voleva dire viva la critica. Viva chi ci corregge. Chi ci fa capire un errore. Perché è solo con questo tipo di confronto che riusciremo a prendere le strade giuste.
Ecco, questa è stata una delle lezioni più grosse che ho ricevuto in tutta la mia vita. La cosa più bella e importante #InspiringPR me l’ha data fuori dal suo contesto.
Io e Toni eravamo arrivati alla sera prima, probabilmente, oltre che per la comodità, per l’importanza che diamo alle relazioni pubbliche. Per la voglia di capire se con qualcuno del “pubblico” sarebbe stato possibile instaurare relazioni personali. Quelle che restano nella sfera privata e che col pubblico non avranno nulla a che fare se non come sui social: modificando la privacy e filtrando i contenuti che si vuol rendere aperti a tutti. Tipo come sto facendo io ora raccontandovi solo quello che voglio di una splendida esperienza personale.
Caffè sbagliati
Il mio intervento ad #IsnpiringPR non prevedeva il caffè come argomento portante. Avevo impostato tutto sulla capacità di ascolto dei messaggi provenienti dalla società, sulla capacità di raccoglierne il senso, sulla differenza come concetto portante per le aziende e per i prodotti che solo distinguendosi acquisiscono una identità e sono diventate o potranno ambire a diventare eccellenze del made in italy.
Poi Oscar di Montigny, nel suo lungo intervento/show ha mostrato, in una slide, il noto scontrino di una caffetteria veneziana che ha fatto pagare 26,00 € per quattro caffè, più 24,00 € di supplemento musica, per un totale di 50,00 €. Ce ne ha spiegato il suo senso dapprima ricordandoci il costo solito di una tazza di caffè (1,00 €) poi quello di una capsula di caffè monoporzione (0,40 €), e quindi giustificando il totale dello scontrino incriminato con il valore della storia del luogo in cui lo si stava consumando.
Questa sua interpretazione mi ha infastidito. Quindi mi è toccato iniziare la mia presentazione provando a completare le informazioni relative ai costi del caffè e provando a spiegare perché, dal mio punto di vista, quel costo è ingiustificabile. Mi fa piacere riprendere quei concetti qui, ed espanderli.
“4 caffè 50 euro?! Non stai comprando un caffè, ma la storia!” racconta @OscardiMontigny a #InspiringPR pic.twitter.com/ceQ0Hx2iiw
— Riccardo Scandellari (@skande) 30 Maggio 2015
Ricordando soltanto il costo al pubblico di una tazza di caffè, di una capsula monoporzione, e saltando direttamente alle conclusioni sullo scontrino di 50,00 €, Oscar aveva tralasciato un passaggio importantissimo delle dinamiche relative al costo del prodotto e del prezzo di vendita: il passaggio che porta il caffè dalla torrefazione (produttore), al bar (intermediario), al cliente finale (chiamiamolo per una volta ancora consumatore).
Questo passaggio è fondamentale per capire perché proporre una tazza di caffè a 6,50 € è eticamente scorretto, e commercialmente e strategicamente sbagliato.
Premettendo che il bar calcola il costo del caffè per kg, e che con 1kg di caffè un barista eroga circa 130 caffè espresso; un bar che vende una tazza di caffè ad 1,00 € ha già un ritorno che va dal 500% al 1200% (costo prodotto/entrata prodotto. Dipende da quanto paga 1kg di caffè al suo fornitore). Vendendola a 6,50 € il suo ritorno sale e va dal 3250% al 7800% rispetto al costo del caffè per kg. Qui forse vi sto spiegando il perché delle tante losche dinamiche che ruotano intorno settore caffè. Ma ora non è questo il mio obiettivo.
Ho visto, negli anni, costi sproporzionati in eccesso giustificati dalla location e dal servizio, ma non ho mai visto un caffè costare 0,10 € neanche nella peggior bettola incontrata durante tutta una vita in giro per l’Italia. Quindi mi chiedo perché mai un bel luogo aumenta il valore di un prodotto e un luogo brutto non lo svaluta?
Il mio obiettivo qui è provare a spiegare perché in questo paese non sappiamo fare marketing turistico basato sulla cultura. Perché non sappiamo dare il giusto valore ai nostri prodotti, alla nostra arte. Ma soprattutto vado ad esporre un punto di vista personale sul perché non sappiamo venderli ai turisti, arte cultura e prodotti, rischiando di far calare la loro appetibilità a causa della nostra arroganza e incompetenza.
Arrivato a Venezia alle 13.00 del venerdì, fino all’ora di cena ho avuto abbastanza tempo per godermela un po’. Le strade, si chiamano calle, i canali, alcuni, si chiamano rio, le piazze, alcune, si chiamano campo, e i ponti si chiamano ponti. Non m’innamoravo di una città da non so quanto tempo. Poi i turisti, terribilmente tanti. Gli asiatici, tantissimi. Sorridenti. Ridenti. Felici. In piedi. Si, in piedi. Intelligenti. Informati. In piedi. Tutti col gelato tra le mani. In piedi. Migliaia di persone in una piazza per una decina di caffetterie, tre concertini, centinaia di tavolini e migliaia di sedie. Vuote. Sedie tristemente vuote. E io non riuscivo a spiegarmelo. Finché durante #InspiringPR è arrivato l’intervento di Oscar che mi ha chiarito le idee. Ma nel modo opposto a quello che però intendeva lui e che ha – io dico purtroppo – inteso la platea.
Onde evitare di farmi travolgere dalla deformazione professionale, mi son chiesto se conoscevo altri prodotti (e non servizi) che portassero un ritorno economico al commerciante (non al produttore) pari almeno al 1000% del costo d’acquisto. Non ne ho trovati. Ho provato a rispondermi prendendo in considerazione altre tipicità del food, che forse è il settore con margini di profitto maggiori. Ma il valore di un’aragosta o di un pomodoro, proporzionato al suo costo di acquisto, può essere alimentato dalla sapienza dello chef con cui la cucina, dal come, quindi dal servizio, ma soprattutto da quella che può essere vista come un’opera di intelletto, l’invenzione di una ricetta, a cui ogni autore può dare il suo valore.
Potremmo essere portati a pensare che allora anche un caffè in tazza è un’opera di intelletto considerando che una miscela può essere invenzione del suo torrefattore. Assolutamente si, ed è il messaggio che da sempre più mi preme far trapelare: che una tazza di caffè prodotta da una torrefazione storica, artigiana, attenta a selezionare ogni singola piantagione di caffè che andrà a comporre la propria miscela, ha un valore molto più elevato di un caffè industriale di grossa distribuzione. Ma, ahimè, credo di poter affermare che, considerando il costo medio di 1 kg di caffè, il numero di bar in Italia per il numero delle torrefazioni e dei brand, i casi di produttori che per lavorazione e qualità del prodotto danno un valore alla propria miscela superiore ai 30,00 € al kg sono davvero pochi. E i commercianti (bar) che accettano di pagare questo costo nonostante possa essere giustificato da tutto ciò, sono ancor meno. Ragion per cui mi sento di confermare le percentuali descritte su relative al ritorno economico medio di un bar rispetto al costo medio che paga per 1 kg di caffè (dal 500% al 1200% per una tazza a 1,00 €. dal 3250% al 7800% per una tazza venduta a 6,50 €).
Tornando allo scontrino incriminato, che recitava 26,00 € per 4 caffè e 24,00 € per supplemento musica, mi chiedo perché il costo del coperto più quello del servizio, ed il non valutabile costo del panorama/storia/tradizione/luogo, debba essere inserito tacitamente in quello del prodotto caffè. Non è commercialmente giusto. Non è eticamente corretto. Ma soprattutto è strategicamente sbagliato per il turismo, visto che, in tanti casi, nel nostro paese, il costo del ticket di un museo, e quindi il valore che diamo alla nostra cultura e alla nostra arte, non è superiore ai 6,50 € di quei caffè presi seduti in piazza. Se la musica ha una sua riga nello scontrino, allora sarebbe giusto inserire altre voci come “supplemento x”, magari arriveremo un giorno al “supplemento aria”, e non rincarare in modo assurdo il costo di una tazza di caffè (tante volte anche imbevibile).
Considerando che i turisti arrivano in tutte le nostre città non per i caffè, ma per l’arte e la tradizione, per la cultura di cui sono ricche, potremmo semplicemente migliorare i servizi legati al settore turistico, aumentarne il valore economico che i turisti di tutto il mondo sarebbero disposti a riconoscerci, ridimensionare i costi spropositati dei prodotti di largo consumo, e puntare sull’economia della moltiplicazione: Avremo più entrate, più fatturato, più profitto, riempiendo migliaia di tavolini e di sedie dei bar coi culi dei turisti che consumano migliaia di caffè a 2,00 € e che una volta consumati andranno a visitare i nostri musei a 30,00 €, piuttosto che migliaia di tavolini svuotati dal timore e dall’assurdità del costo di un caffè a 6,50 €.
Crediamo di essere furbi e di poter raggirare clienti e turisti con dinamiche quantomeno ambigue. Invece siamo solo ignoranti e rischiamo di perdere gli uni e gli altri.
Ispirazioni
E qui ritorna l’ispirazione e l’emozione dell’insegnamento più semplice che mi ha lasciato mio padre, e che avevo inserito in una slide del mio intervento: basterebbe solo porre il cliente-turista al centro del nostro lavoro e far ruotare intorno alla sua soddisfazione tutte le nostre attività. Il cliente-turista tornerà, promuoverà entusiasta i nostri prodotti e i nostri servizi, la nostra arte e la nostra cultura e, al suo ritorno, porterà con sé altri clienti-turisti entusiasti e curiosi che condivideranno, a loro volta, la propria positiva esperienza generando altro entusiasmo e altra curiosità verso i nostri prodotti che siano culturali o di qualunque genere. Un loop intelligente generato da semplici azioni. L’economia della moltiplicazione.