Quando Jurassic Park arrivò nel cinema del mio paesino avevo nove anni. Purtroppo non ci andai: forse a casa era passato inosservato o, più probabilmente, i miei genitori avevano paura che mi impressionassi. (Invece Mimì che si allenava con le catene ai polsi andava bene. È un miracolo che la mia generazione non sia ancora terrorizzata dagli sport di squadra.)
Credo di averlo visto poco dopo in VHS. Si può amare o considerare un film di scarso valore ma Jurassic Park è il film della mia infanzia: non tanto perché fosse stato il mio preferito (all’epoca mi faceva impazzire Commando) ma perché è stato il primo blockbuster che io ricordi dopo i classici Disney.
Un parco con dei dinosauri vivi dentro. Che fanno un casino della madonna e mangiano tutti. Wow.
Qualche anno dopo, in uno dei millemila passaggi in tv, una inquadratura ha attirato per la prima volta la mia attenzione: per anni avevo creduto che fosse il riflesso della grata sulla testa del velociraptor
Là dove forse non era ancora arrivato il programma di biologia, arrivò Gattaca, su cui nel frattempo avevo versato litri di lacrime. E da quel momento l’inquadratura con le triplette di dna di Jurassic Park mi è rimasta appiccicata da qualche parte della testa. Così gigiona, così sei-quello-che-sei-non-provare-a-negarlo.
Qualche anno dopo ancora… beh, poi è arrivato l’Internet, signora mia, e Jurassic Park è diventato questa roba qua:
P.S. Ricordatevi il cappello!