“Signore, mi perdoni, come vuole che gestisca la sua…
La mia morte? Gestiscila come se fosse la tua!
Quindi… Lascio tutti i soldi al mio assistente?”
R. Reiner, The Bucket List, 2007
Ho sempre fatto fatica a vedere Jack Nicholson recitare la parte del malato terminale: non tanto il ruolo in sé, ma perché in The Bucket List Jack Nicholson, rugoso e invecchiato lo è per davvero. Non è una finzione.
Ammetto di avere una specie di infermità cronica nell’accettare con calma i cambiamenti,
quelli grossi e importanti che prima o poi vanno affrontati ma, comunque, anche vedere il signor Easy Rider in sovrappeso e con i capelli radi ti mette di fronte all’ineluttabile: il tempo che passa, per tutti.
Per questo mi sono sempre domandata se, forse, non fosse meglio fare come fanno certi atleti, che sanno capire quando è il momento di ritirarsi, in modo da lasciare il campo gara con un botto pazzesco piuttosto che vedere le molte medaglie conquistate appannate da altrettante sconfitte.
Ma se il cinema è davvero lo specchio della società e un film può essere una metafora dell’esistenza allora… beh, mica ci si può ritirare. Uno gioca e basta, anche a far la parte del vecchio bizzoso.