Storytelling è quando l’azienda parla la lingua delle persone

Quando racconto che lavoro per un’azienda di software, la prima domanda che mi fanno è Sei un programmatore? No, non solo non sono un programmatore, ma non sono capace nemmeno di leggere un codice. In compenso ho una laurea in lettere moderne. Inutile, almeno così mi disse un gentilissimo signore 5 minuti dopo la mia proclamazione a dottore. Con lode, perché sono uno a cui le cose piace farle bene. Me lo ricordo ancora il sarcasmo di quel signore. Rideva sotto i baffi e diceva a sua moglie: un disoccupato in più.

Storytelling è quando l’azienda parla la lingua delle persone

Fu quel giorno che promisi a me stesso che quella laurea doveva essere onorata, a tutti i costi. Ma non sapevo in che modo. Ne ho provate molte, me ne sono riuscite poche, soprattutto all’inizio. Laureato in lettere? No, grazie. Umanista? Ma sta scherzando? Nessuno immaginava quello che stava per succedere. Poi, all’improvviso, arriva la grande occasione anche per il sottoscritto. Una multinazionale dell’elettrodomestico mi chiama per lavorare nell’ufficio comunicazione. Evviva. Faccio il mio compito, rispondo sempre sì, sono disponibile, puntuale, operativo. Fallisco. Nel giro di un anno.

Dodici mesi ad inseguire un sogno e a dimenticare ciò che so fare davvero; scrivere. Perché siamo in un’azienda e c’è poco da scrivere. Devi dimenticarla la tua passione umanistica Cristiano. Resto fermo, ancora un po’. Mi reinvento responsabile acquisti, poi commerciale, infine traduttore. Poi arriva un’agenzia. Ci serve un account. Un account? Ci sto. Tanto peggio di così. Non faccio nemmeno in tempo a spiegare che ho una laurea umanistica. Inizio a fare di tutto: dal facchino al muratore, nei giorni di gloria vado dai clienti a consegnare i progetti.

La titolare si accorge che so presentare i lavori. Io mi accorgo che manca un copywriter. Francesca, posso farlo io? Non ho le basi, a parte quelle dei classici, ma ci provo. All’inizio poca roba, poi ricomincio a studiare. Dai libri di chi è più bravo di me. Lavoro sul campo, inizio a pensare che anche le aziende, in fondo, hanno bisogno di qualcuno che parli una lingua più vicina a quella dei consumatori. Inizio a prendere fiducia perché anche le aziende hanno bisogno di storie.

Poi arrivano il digitale e i social network, le storie si moltiplicano e i contenuti (che Dio li benedica) diventano un bene necessario per le aziende e per i consumatori. Qualcuno mi dice che ciò che faccio si chiama Storytelling. Mi piace, suona bene, lo prendo. Ma non conta il nome. Contano le storie che racconti. Conta che l’azienda riesca finalmente a parlare la lingua delle persone. Contano le Persone, che non sono più solo Clienti. Contano le parole, finalmente. Ecco, oggi ho capito a cosa è servita quella laurea: a farmi studiare ancora. Ogni giorno di più. Per me, per le aziende che seguo, per le persone che leggono. Non sarà la vita di Hemingway, ma è sempre meglio che dare ragione a quel signore. E scusate se questo post ve l’ho raccontato come se fosse una storia: è un difetto di fabbrica, un difetto da Storyteller.

Cristiano Carriero

Classe '79, calciatore mancato (troppo estroso), chitarrista mancato (suono ai falò a ferragosto), professore mancato (ho una laurea in lettere a chilometro zero). I progetti, non mancano. Socialmediacoso di mestiere, giornalista per passione, canto il calcio come se fosse una storia d'amore e perdo amori come fossero partite di calcio. Ma resto un tipo sportivo e indosso scarpe da tennis sotto l'abito.

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