Era agosto, quest’estate. Papà cominciava la sua ultima lotta. E a me piace pensare che l’ha vinta. Lui non c’è più su quel divano, ma per me ha vinto comunque. Ha affrontato tutto fino alla fine, come sempre. Ha stravinto.
Gli facevo compagnia, e prima che le cose cominciassero a complicarsi iniziai a scrivere. Magari un giorno pubblicherò. Dovrò prima finire. Storia, marketing, vita, caffè. Boh, magari un giorno lo finirò davvero.
Quel giorno, con un caldo infernale scrissi tanto. Scrissi di papà. Registrai anche qualche suo racconto dalla sua voce, già bassa. Questi non credo li condividerò mai. Poi boh.
Stasera me ne sto qui al salotto a leggere. A ricordare. Semmai pubblicherò, questo sarà il primo capitolo.
Ho cominciato ad interessarmi all’azienda di famiglia che ero un bambino. Avrò avuto sei anni quando appena potevo mi incollavo a mio padre per catturare ogni suo movimento e farlo mio. Oddio, chiamarlo interesse per l’azienda a sei anni è troppo; chiamiamola curiosità infantile. Voglia di giocare va.
Per me la torrefazione era un piccolo parco giochi. Mi fermavo ore a fissare quella macchina infernale dentro cui papà svuotava ogni quindici minuti circa un enorme secchio di caffè che pesava su per giù una trentina di chili. Lo afferrava, si piegava sulle ginocchia, lo portava sulle spalle e poi lo svuotava giù dentro quella specie di piramide capovolta tipo imbuto, che continuava poi in un piccolo scivolo dove si fermavano quei chicchi. Poi prendeva una grande busta bianca, vuota, di Caffè Carbonelli da tre chili, ci infilava dentro tutto il braccio e, aprendo la mano e giocando con le dita, gli formava la base da poggiare sulla pedana della bilancia. Spingeva quindi un pedale che era in terra, che somigliava a quello delle macchine tozzi-tozzi delle giostrine, e a quel punto partiva un rumore, sempre lo stesso rumore, che durava ogni volta cinque-sei di secondi, durante i quali venivano giù nella busta tanti chicchi di caffè. Pareva il rumore della pioggia sulla tettoia, e ogni volta io salivo sulle punte e mi affacciavo a guardarli cadere nella busta, e pensavo che tutti quei chicchi di caffè sarebbero usciti fuori e caduti. E invece si stoppavano sempre allo stesso punto.
Ricordo le dieci fila di sacchetti pieni e ancora aperti incolonnati precisissimi, ognuna di quelle fila ne contava dodici. Quindi da grande capii che papà da solo, in una mezza giornata, impacchettava quattrocentottanta chili di caffè. E ricordo che tutte le volte che ero lì volevo aiutarlo e invece finivo sempre per urtare qualcuna di quelle buste facendone cadere almeno una. Riuscite ad immaginare tre chili di chicchi di caffè sparsi sul pavimento? sono tanti. Vi garantisco che sono tanti. E papà mai una volta che mi sgridava, prendeva la scopa, la paletta di acciaio che mi piaceva tanto, una specie di passino gigante di metallo, e li raccoglieva tutti, e li ripuliva dalla polvere, e li faceva risalire nel silos di appartenenza per ripetere tutte le fasi della pulizia. E io lì mortificato che lo guardavo e lo ammiravo.
Con pazienza ricominciava a lavorare e faceva giocare pure me facendomi battere le buste piene di caffè, sul banco, dall’alto verso il basso per compattarle, per poi spingerle su quel rullo che camminava sempre. Pareva girare all’infinito, tipo quei lunghissimi piani mobili sotto la metropolitana di parigi. Le buste entravano aperte e uscivano chiuse. Sigillate. Saldate. E dovevo fare pure attenzione a non toccarle sul lato appena chiuso, che scottava. Con la stessa precisione papà le riprendeva tutte e le incolonnava poi giù in terra al bancone lungo, dove ad una ad una le posava su quella che chiamava pedana di legno.
Eh, a quei tempi lui di giornate del genere ne passava almeno due alla settimana, altre due tostava il caffè che poi impacchettava, e altre due andava a consegnare il caffè che tostava e impacchettava. Io l’osservavo, lo vedevo la sera fare conti e preparare le fatture, con la vecchia calcolatrice alla mano, quella che battevi sui tasti e il rullo di carta scriveva e stampava i calcoli e i risultati.
Quante volte ho provato a capire il calcolo dell’ IVA da bambino. L’imposta valore aggiunto. “una parte di quello che la gente paga per il nostro caffè va allo stato. È un dare e avere”, mi diceva. Io non la capivo sta cosa, e oggi, a trent’anni passati nonostante abbia capito la dinamica, continuo a non condividere del tutto il sistema e il metodo, ma vabbè questa è un’altra storia. “Dal totale bisogna togliere il venti percento”. E quanto tempo passato a spiegarmi che l’iva non si calcola premendo il tastino della percentuale, ma dividendo il totale per uno punto venti. Si, mio padre non lo sa, ma è stato il mio primo professore di ragioneria. Non dico matematica perchè con quella non ci sono andato mai tanto d’accordo. Il bello era che lui si trovava sempre. Tra i suoi conti e il metodo matematico non c’era mai tanta sintonia, ma lui si trovava. Aggiungendo questo e sottraendo quell’altro, dividendolo per tizio e moltiplicandolo per caio, beh sta di fatto che lui arrivava sempre al totale esatto. Io non capivo e per quel poco che avevo studiato fin a quel momento non ero d’accordo coi suoi percorsi, ma i risultati davano sempre ragione a lui. Nessuna laurea, nessun master, ma credetemi, oggi a settantasette anni e un pò acciaccato, papà ci mette un pò più di tempo, ma arriva a calcolare, lui solo sa come, il costo di un chilo di caffè composto da più di cinque piantagioni, tenendo conto di spese di legna, gas, acqua, elettricità, manodopera, e materie secondarie, con la stessa perfezione del nostro ERP. Si può anche dire, inoltre, che sulla previsione del calo di peso nella trasformazione da caffè crudo a caffè cotto, è più preciso dello stesso programma. Provate a dirlo voi all‘ ERP quale calcolo deve effettuare per determinare su ogni piantagione di caffè il relativo calo di peso, inserendo quello specifico del crudo, volume, tempi di cottura, a quanti gradi cuocere, tutto in base alle caratteristiche organolettiche di quella determinata piantagione di caffè. Poi una volta immessi tutti i dati e generato il risultato ditemi se sareste disposti a fidarvi ciecamente di quello che il programma tira fuori dal suo cervellone, visto che rimarrete sempre con quella faccia dubbiosa.
C’è una cosa su cui la più avanzata tecnologia non potrà mai superare l’uomo: l’esperienza. Su questo tipo di previsioni, senza alcun dubbio, un programma darà sempre il risultato esatto rispetto ai dati inseriti. Il fatto è che per certi prodotti non basta il risultato esatto per determinare la ricetta giusta. Questo tipo di calcoli devono tener conto del clima, dell’umidità della legna, e del conseguente aumento o diminuzione dei tempi di cottura. Insomma, checchè vorranno farvi credere, il caffè lo fa l’uomo e non la macchina. E questo meccanismo parte ben prima della diretta competenza del bar e del barista. Parte dalla produzione, dalla torrefazione e dal torrefattore.
Ecco, a proposito, è un pò lo stesso discorso che mi ripeteva sempre quando prendeva il caffè al bar e non era soddisfatto. Premesso che papà non ha mai parlato male di un concorrente per presa posizione (“signori si nasce, e io lo nacqui” è la citazione di Totò che preferisce) -forse perchè ingenuamente fino a una ventina d’anni fa si pensava che tutti lavorassero competendo sul mercato con l’unica arma della qualità-, imputava la bontà della tazzina di caffè alla mano del barista. E tutte le volte si fermava a dare consigli o ad apprendere i segreti di chi era dietro al bancone.
“Il barista professionista si vede quando al mattino regola il punto di macina del macinino” diceva sempre. Essendo io pigro anche di pensiero, mi sono sempre immaginato essere un barista pessimo. Ebbene, vi garantisco che nonostante ci siano giovani neolaureati alle cosiddette università del caffè col massimo dei voti, la miglior tazza di caffè la berrete qui a Napoli, quando sul retro del banco bar troverete un ultra sessantenne alle prese con macinino e macchina da caffè. È quella la generazione di baristi professionisti a cui fa riferimento mio padre: quelli che al mattino le prime tazze di caffè le buttano all’insaputa del proprietario ignorante, solo per arrivare a centrare la giusta regolazione del macinacaffè. Sono queste persone che hanno fatto le fortune delle più rinomate caffetterie napoletane e mondiali. E i proprietari dei bar spesso neanche lo sanno. Sarà tramandando quel tipo di esperienza che oggi un imprenditore che vuole dedicare la sua impresa ad una caffetteria, riuscirà ad incrementare giorno per giorno la propria clientela. Il resto è marketing, scena, accessori d’impresa che occorrono si a qualsiasi azienda, ma che senza le basi solide della conoscenza e della vera cultura del prodotto, avranno vita breve.
La qualità del prodotto
Mio padre mi diceva sempre che quando entravamo da uno dei suoi “clienti bar” non dovevo accettare nulla che mi fosse offerto. “Perchè poi non vogliono i soldi, e mi dà fastidio”, questa era la spiegazione. – Oggi in torrefazione mi ritrovo spesso amici che non so nemmeno di avere, che passano a prendere un box di caffè pretendendo lo “sconto amicizia”. L’italiano è un popolo maleducato. Questa cosa non succede solo a Napoli. Ricevo delle email con delle richieste assurde: vere e proprie pretese di gente che vorrebbe diventare cliente, ma che deve assaggiare prima il caffè. Io li rimando all’acquisto del kit assaggio che copre le spese di spedizione, e loro mi rispondono che allora compreranno altrove. Poi mi arriva la richiesta di un potenziale cliente grossista estero e la prima cosa che mi chiede è quanto deve accreditarmi per ricevere una campionatura per decidere se il prodotto è di suo gradimento per inserirlo tra la propria gamma. Si, siamo un popolo maleducato.-
C’era però un cliente che faceva un gelato buonissimo, in una piazzetta di un paesino vicino Melito. Papà ci andava un paio di volte a settimana – se un fornitore di caffè rifornisce il proprio cliente due volte la settimana con venti chili di caffè ogni volta, questo vuol dire che è un buon cliente – e spesso io andavo con lui. Il proprietario mi offriva il gelato, sempre, ed era l’unico cliente da cui potevo accettarlo. “Don Rafele è uno dei pochi che fa veramente il gelato artigianale. Qua veramente senti il sapore dei gusti, no come tutte quelle schifezze che vendono in giro”. E sceglieva poi sempre lui per me. Limone. Io lo volevo a nocciola, e invece dovevo sentire quant’era buono il limone. Altro importantissimo insegnamento che ora capisco alla perfezione: la qualità di un prodotto la si vede nella sua semplicità. “Vuoi capire se una gelateria lavora con ingredienti genuini, vera frutta, ecc.? allora devi assaggiare il gusto più semplice”.
E quindi ecco che nella pizzeria in cui entro per la prima volta chiedo sempre una margherita a filetto o una marinara; al bar un espresso, senza macchie, senza cremine varie e nutelline e kinderini, un espresso. Corto, semplice. Un espresso, e in vetro, perchè si, il caffè si prende in tazza, ma io sono troppo scettico per affidarmi alla crema dorata in superficie, che troppo spesso per mandar giù cinque grammi di zucchero li devi spingere col cucchiaino. E no, quello non è il miglior espresso che si può bere. Allora per me in vetro, trasparente, vediamo dall’inizio alla fine come vien giù. Se voglio la crema di caffè vado dal pasticcere, invece quando entro nel bar voglio il caffè. Deformazione professionale sicuramente, ma questo piccolo insegnamento che mi ha trasmesso mio padre mi aiuta in tutti i rapporti lavorativi. Testiamo tutti i fornitori e tutti i prodotti, ma devono essere trasparenti, così possiamo scegliere se affidarci a loro per qualità e professionalità. E così faccio nella vita. Assaggio tutto, ma per affezionarmi devi offrirmi il meglio e nel migliore dei modi. E con questa filosofia papà ha insegnato a me e mio fratello a trattare i nostri clienti. Fa niente se il mercato ad un certo punto, per crisi, per ignoranza, o perchè diventa matto, richiede un prodotto meno prelibato. Il mercato va accontentato, ma i clienti di quel mercato devono conoscere ciò che gli offriamo. Dobbiamo offrirgli il prodotto e la cultura su quel prodotto.