I club esclusivi e i sommelier del caffè. Quando il marketing diventa il pappone di un prodotto

No, è che poi sento parlare di Espresso, di caffè, di Grand cru, di selezione di questo e di quello.
Ne leggo a bizzeffe e mi imbatto in club esclusivi da un lato e università del caffè dall’altro, tutti pronti a far scuola e ad accogliere i nuovi clienti, che ne diventeranno in buona parte i nuovi esperti, i sommelier del caffè.

sommelier del caffè?
Bah.

Poi, dopo aver approfondito, leggo le firme ai titoloni: i nomi degli intervistati sono quelli di manager di multinazionali, o gente che ha frequentato quelle scuole, persone che diventano professori di “teorie e tecnica per preparare l’espresso a regola d’arte”. E qui ci starebbe bene il sottofondo delle Iene con la voce di Enrico Lucci “TEORIA E TECNICA PER PREPARARE L’ESPRESSO A REGOLA D’ARTEEEE”? Ecco.

Poveri noi. C’è ancora chi discute il potere del marketing.

Io ho trent’anni. E da bambino salivo in macchina di mio padre, che puzzava di caffè.
A me piaceva. Mio padre e mio fratello, invece, appena a casa, si buttavano sotto la doccia per levarselo via quel profumo. E oggi sto capendo il perché. Non è più un odore, è un profumo che arriva al naso. È qualcosa che t’impregna, un po’ come il cuoco che crede sempre di puzzare della spezia dell’ultimo piatto preparato.

E niente, mi chiedo di cosa profumano i sedili delle mercedes dentro cui tornano a casa i professori del caffè.

Ora, lungi da me fare la morale. Ad arrivarci a creare un qualcosa di simile! Ma con un’anima.

Ma quello che mi chiedo è, se invitassimo uno di questi manager a prepararci una buona miscela di caffè, mettendogli a disposizione il nostro impianto artigianale, con tutta la legna che occorre per la lavorazione, sarebbe in grado di trasformare tutte le nozioni teoriche in un vero espresso “a regola d’arte”?

Club esclusivi, sommelier del caffè, voi mi svalutate il termine Espresso facendolo sembrare un prodotto d’elìte! Mettendoci la vostra N d’avanti.

Allora vi dico la mia. Manca l’apostrofo: da quando esiste la cultura dell’espresso napoletano è risaputo -ed è una delusione che poi chi fa scuola ci propone qualcosa di diverso- per erogare un buon espresso, anche al bar, occorre una dose di 7 grammi di caffè. Le dosette porzionate, più comunemente chiamate cialde o capsule, dovrebbero tutte contenere dai 7 ai 7,5 grammi di caffè.

E invece? Invece la grossa multinazionale, che dalla Svizzera vuole insegnarci la cultura dell’Espresso, ne mette 5 grammi.

Pare che siano diventati professori senza essere andati a scuola.

La mia è che manca l’apostrofo. Si leggerebbe sempre allo stesso modo, ma si scriverebbe così: N’Espresso, alla napoletana, che tradotto vorrebbe dire “Non è Espresso”, se vogliamo stare alla cultura del termine.

Il gusto di un buon caffè -quello si- tante volte è frutto di un’ottima macchina.
E su questo dobbiamo ammettere che alcuni sono stati davvero bravi, ma vi garantisco che esistono macchine del caffè che possono far sembrare ottima anche una ciofeca.
Sicuramente non è il caso della multinazionale.

Ma perchè deve essere esclusivo o’cafè?

A chi va data questa esclusiva? E perché devo credere di essere intenditore solo se frequento una scuola? A me piace il caffè e so distinguer uno dolce da uno amaro. E tanto mi basta.

Ci stanno imponendo una mentalità sbagliata: come se da domani gli intenditori di musica fossero solo quelli che hanno frequentato il conservatorio.

Cari maestri, certo, senza tecnica non si va da nessuna parte.
Ma l’arte è passione, è quella che arriva al pubblico.
È così anche per il caffè. È del popolo.

Ma torniamo a noi, ai costi. Ma se chiedo 1 chilo di caffè e tu me ne dai 750 grammi (ben 250gr. in meno), perché devo pagarti il triplo di quello che ti chiedo? Per pagare il cachet del sig. Attore che presta la sua immagine affinchè io sia convinto a farmi raggirare, ma con stile?

Prima ero al bar, prendevo un caffè, e c’era un tabellone pubblicitario di un nuovo locale per soli adulti, ad ingresso gratuito. Ho riflettuto un attimo, perché -quel caffè, anche se non era il mio, devo dire che era ottimo- mi son perso cinque minuti e m’è venuta in mente questa: esistono tanti marchi di caffè che non sono torrefazioni, ma marchi. Che non sanno neanche cosa sia un buon caffè, ma nascono e vendono, credendo di combattere la crisi, svalutando il prodotto, quasi regalandosi. È una sorta di prostituzione del prodotto.

Poi pensavo alle escort di professione invece. Ce ne sono alcune talmente belle che pensi “Questa non è una donna, è una dea”. E in effetti magari, dopo, scopri che non era una donna, ma che fino a un anno prima si chiamava Giovanni, che non era per niente un dio e che quindi non è che ha fatto il miracolo, ma ha investito a un bel po’ di soldi, per diventare Samantha, ed oggi riesce a vendersi grazie alla sua immagine, ad un prezzo che decide lei in una casa chiusa, dove hanno accesso solo gli associati al club esclusivo.

Ma è un caffè che sa di latta e non di caffè.
E la parola caffè, abbinata alla parola sommelièr, riporta in mente i calici di vino.

Ma per piacere. Aridatece l’anima.

Luca Carbonelli

Imprenditore, esperto di Marketing ed ecommerce, con particolare preparazione nella gestione della piattaforma Amazon. Dal 2004 gestisce l'azienda di famiglia, la Torrefazione Carbonelli s.r.l. di cui è fautore della trasformazione digitale che le ha permesso di imporsi nel mercato online come punto di riferimento del made in italy nel settore food & beverage.
È consulente esterno in gestione aziendale, trasformazione digitale, marketing e comuniaczione; ecommerce, Amazon. Effettua corsi di formazione in management delle pmi, maketing, digital marketing, ecommerce, gestione della piattaforma Amazon. È autore di "Falla esplodere. Come una piccola impresa può affrontare la trasformazione digitale".

Impegnato nel sociale, è stato per 5 anni vice presidente del gruppo giovani della CNA (confederazione nazionale artigianato).

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